Nei piani dei nazisti, all’interno dei campi di concentramento, dovevano essere deportate e uccise 11 milioni di persone, prevalentemente ebrei schedati nei vari Paesi europei. Per realizzare questo sterminio fu necessario un enorme sforzo logistico e burocratico, a partire dall’organizzazione dei trasporti.
Il viaggio verso la morte iniziava con il prelievo forzato dalle proprie case da parte della polizia, di collaboratori locali o di ausiliari. I deportati venivano condotti alle stazioni ferroviarie, dove spesso attendevano per ore prima della partenza dei convogli, composti perlopiù da vagoni merci. L’organizzazione dei trasporti era studiata nei minimi dettagli per garantire la massima efficienza. Il tragitto verso i campi di sterminio durava ore o giorni, con i prigionieri ammassati nei vagoni, soffocati dal caldo estivo o congelati dal gelo invernale. Non vi era alcun accesso a servizi igienici: ai deportati veniva dato solo un secchio da condividere. Non ricevevano né cibo né acqua per tutta la durata del viaggio.
Ancor prima di arrivare, ai deportati veniva tolta ogni dignità. Il viaggio verso l’inferno era una condanna inflitta con disprezzo, peggiore di quella riservata agli animali destinati al macello. Molti non sopravvivevano al tragitto. Una volta giunti al campo, i prigionieri venivano scaricati e si trovavano di fronte ai corpi senza vita dei compagni di viaggio. In silenzio, obbedivano agli ordini, consapevoli che chiunque tentasse di fuggire sarebbe stato fucilato sul posto. All’ingresso del campo avveniva la selezione: gli uomini venivano separati dalle donne, e le SS decidevano chi fosse idoneo al lavoro. Bambini, anziani e malati venivano inviati immediatamente alle camere a gas. Chiunque rifiutasse di obbedire veniva ucciso.
Dopo la selezione, i prigionieri venivano condotti in grandi camerate, costretti a spogliarsi, rasati e obbligati a fare una doccia, spesso con acqua gelida o bollente. Seguiva la registrazione: le loro generalità venivano annotate e a ciascuno veniva assegnato un numero di matricola, che diventava la loro unica identità. Questo processo era studiato per disumanizzarli, riducendoli a semplici strumenti del sistema nazista. Venivano poi vestiti con un’uniforme a righe e un triangolo colorato identificava la categoria a cui appartenevano: rosso per i prigionieri politici, verde per i criminali comuni, nero per asociali e rom, blu per immigrati e apolidi, viola per i religiosi e i testimoni di Geova, rosa per gli omosessuali, marrone per i rom e sinti, e infine la stella gialla di David per gli ebrei.
Dopo aver ricevuto la divisa, i prigionieri trascorrevano fino a otto settimane in isolamento, ufficialmente per prevenire il contagio di malattie, ma in realtà per annientarli psicologicamente. Erano ormai ingranaggi di una macchina di morte.
LA MORTE NEI CAMPI
La vita nei campi era segnata da condizioni inumane. I prigionieri dovevano sopravvivere almeno tre mesi, un’impresa quasi impossibile poiché le razioni di cibo erano calcolate per condurre lentamente alla morte per inedia. Il cibo consisteva in una zuppa acquosa e un pezzo di pane. La malnutrizione trasformava i corpi in scheletri viventi; le donne perdevano il ciclo mestruale.
Uno dei principali strumenti di sterminio era il lavoro forzato. I prigionieri erano costretti a svolgere attività estenuanti nei cantieri e nelle fabbriche, esposti alle intemperie senza alcuna protezione. Il loro valore si misurava esclusivamente nella capacità di lavorare.
Nei principali campi erano presenti strutture dedicate a sperimentazioni mediche. Il dottor Josef Mengele, ad Auschwitz-Birkenau, condusse esperimenti su gemelli e persone affette da nanismo, causando la morte di circa 3.000 individui. Mengele non fu mai catturato né processato. Altri esperimenti, altrettanto crudeli, venivano condotti per studiare gli effetti delle cadute da alta quota, le malattie tropicali e il congelamento. Migliaia di prigionieri furono infettati, sottoposti a test letali e uccisi senza il minimo scrupolo.
Ogni due giorni si tenevano gli appelli, in cui veniva controllata la presenza dei prigionieri. Se qualcuno risultava fuggito o si era suicidato, le SS uccidevano alcuni compagni per rappresaglia. Le esecuzioni avvenivano tramite impiccagione, fucilazione, tortura o fame. Chi non era più abile al lavoro veniva inviato alle camere a gas.
Con l’avvicinarsi degli Alleati, i nazisti tentarono di cancellare le prove dello sterminio: bruciarono gli archivi e distrussero ogni documento compromettente. Organizzarono le marce della morte, costringendo i prigionieri a camminare per chilometri senza sosta. Moltissimi morirono lungo il tragitto, sfiniti dalla fatica e dalla fame.
FUORI DAL CAMPO
All’esterno dei campi, molti erano a conoscenza di ciò che accadeva, ma pochi osavano parlarne. La propaganda nazista giustificava la deportazione degli ebrei come un trasferimento a est, senza fornire dettagli. Il terrore del regime impediva alla maggior parte della popolazione di indagare. Tuttavia, vi furono persone che rischiarono la propria vita per salvare gli innocenti.
Tra queste figure spicca Giorgio Perlasca, un commerciante italiano che nel 1944, fingendosi un diplomatico spagnolo, salvò migliaia di ebrei a Budapest rilasciando falsi salvacondotti. Un altro eroe fu Oskar Schindler, un imprenditore tedesco che, sfruttando la sua fabbrica, riuscì a salvare 1.200 persone dai campi di concentramento.
Questi atti di coraggio dimostrano che, anche nei tempi più oscuri, l’umanità e la solidarietà poterono opporsi alla barbarie nazista.